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Lettera speranzosa e fiduciosa al Presidente Mattarella Egregio Presidente Mattarella ,      Penso che si stia compiendo l’ennesimo massacro all’Italia.... Read more
FERMATE IL BULLO GUASTATORE Alessandra Servidori                                 FERMATE IL BULLO GUASTATORE  La storiaccia... Read more
ILVero stato della salute farmaceutica Alessandra Servidori    23 GIUGNO... Read more
Scuola .Pnrr cosa non va su istruzione e ricerca Alessandra Servidori    28-12-2020     ... Read more
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PIU' POVERI e MENO SANI Alessandra Servidori             Poveri  e senza salute-                       Sabato 16... Read more
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Cosa resta del giorno   ALESSANDRA SERVIDORI         Una questione durante la campagna elettorale che non ho potuto... Read more
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Cosa resta del giorno

 

ALESSANDRA SERVIDORI        

Una questione durante la campagna elettorale che non ho potuto commentare per inopportunità è stata  gli stati generali della natalità “auspicati fortemente” dalla Ministra Roccella e poi realizzati  dal forum delle associazioni familiari, sono quanto di più zirconico si può fare .E già da 4 anni  che si dicono sempre le stesse cose e  quest’anno addirittura si è avuto il coraggio di affermare che “Il Tour della Natalità è un’opportunità senza precedenti per mobilitare e coinvolgere attivamente il territorio nella ricerca di soluzioni efficaci per affrontare la crisi demografica che affligge il nostro paese.”Ma mai  durante queste giornate nessuno dei relatori/relatrici ha avuto la coscienza di dire che sono da  decenni  non  si svelano gli ‘’abusi sociali’’ compiuti in nome delle pensioni, e delle politiche pubbliche appena decente  e solo di carattere monetario per la famiglia.  E qui sta il punto chiave della nostra storia. Al sostegno dei figli e delle famiglie il welfare all’italiana assegna il 4% dell’intera spesa sociale che è la metà di quella media europea. In termini di Pil alla maternità e ai figli è dedicato circa l’1% che è  pari a 1/17° di quanto è destinato alle pensioni. Dal 1995 ad oggi vi è stata una vera e propria spoliazione di risorse dalle politiche per la famiglia (e la natalità) a quelle pensionistiche. Negli anni ’60, sia pure in un contesto demografico profondamente diverso dall’attuale, la spesa per assegni familiari (AF) era pressoché corrispondente a quella per le pensioni. Gli AF  allora erano misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare (Anf )  il principale, se non addirittura l’unico, strumento a tutela della famiglia,  ragguagliato al reddito e al numero dei componenti. La riforma del sistema pensionistico, attuata dalla Legge Dini-Treu nel 1995 (dettata, parola per parola, al governo da pare dei sindacati), stabilì, a copertura, una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò di colpo dal 27,5% al 32,7% (in seguito al 33%). Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, ad oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota dell’Anf passò dal 6,2% al 2,48%, quella per la maternità dall’1,23% allo 0,66%.  Altri tagli riguardarono gli ammortizzatori sociali. E la politica della casa? L’aliquota ex Gescal (un tempo rivolta a finanziare l’edilizia popolare) passò dallo 0,70% prima, allo 0,35% poi, e infine allo  zero assoluto. In euro, a prezzi 1996, la diminuzione delle risorse disponibili  fu di 4,6 miliardi  di lire per l’Anf, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili ed edilizia sociale, per un totale di 6,6 miliardi.  A prezzi 2008, le risorse disponibili, trasferite alla voce pensioni, corrisposero a 8,5 miliardi l’anno. Più chiaramente –  come documentò  la Cei  in un saggio <Il cambiamento demografico> pubblicato da Laterza  – dal 1996 al 2010 la riallocazione di risorse destinate alla famiglia, in senso lato, ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, mobilitò e trasferì un volume finanziario pari a circa 120 miliardi di euro.  Ma non basta; perché all’interno della Gestione prestazioni temporanee dell’Inps (che eroga le prestazioni previdenziali <minori> in quanto non pensionistiche), la voce <assegno al nucleo familiare> – nonostante la riduzione dell’aliquota - continuò ad incassare dai datori di lavoro circa un miliardo in più di quanto spendeva: l’avanzo veniva riversato, nella logica del bilancio unitario dell’Inps, nel calderone delle gestioni pensionistiche e delle altre prestazioni. Anzi il paradosso contabile era tale per cui, quando un governo decideva di aumentare nella legge di bilancio l’ANF, non si avvaleva degli avanzi di bilancio, ma stanziava direttamente le risorse occorrenti. L’istituzione dell’Assegno unico universale (AUU) ha rappresentato l’inizio di una inversione di rotta con novità importanti. Tuttavia, vengono segnalati alcuni limiti. In primo luogo, la quota universale è relativamente bassa, rispetto ad altre esperienze. In particolare, in Germania – dove le recenti politiche familiari sono riuscite a frenare la denatalità e a invertire la tendenza – l’importo della parte universale è superiore ai 200 euro. Un altro punto di riferimento è rappresentato dai costi sostenuti per i figli dalle famiglie italiane. Alcuni demografi e ricercatori della Banca d’Italia, ospitati dal prestigioso Neodemos on line,  hanno pubblicato delle stime a partire dai dati sui consumi, segnalando una spesa media di 645 euro al mese per ciascun figlio. Simulando, poi, di quanto dovrebbe migliorare il reddito affinché una famiglia mantenga inalterato il proprio livello di benessere dopo l’arrivo di un figlio, si ottiene un valore medio pari a 720 euro (510 per le famiglie povere e 763 per le altre). Tutto ciò ovviamente considerando i soli aspetti economici del problema dell’inverno demografico. Aspetti che insieme al tormentone della precarietà e della crisi degli alloggi concorrono certamente – anche se non in modo esclusivo o prevalente – alla sfarinamento della filiera della riproduzione sociale. Non solo .Roccella si è inventata il bollino blu delle aziende che adottano un cd Codice etico per affermare ( ma non nei fatti haimè!) che sono aziende attente alla maternità…..Il Codice per le imprese in favore della maternità dovrebbe essere  uno strumento di autodisciplina  con l’obiettivo di creare un clima culturale ed economico di collaborazione tra datore di lavoro e dipendenti rispetto al tema della maternità, affinché questa non debba rappresentare per le donne un desiderio alternativo alla carriera.L’iniziativa sostiene, in un senso più ampio e senza sostituirla, la misura PNRR della certificazione della parità di genere , di cui personalmente ( ma poi i dati ce lo dicono!)ho un giudizio profondamente negativo , che vincola l’accesso a sgravi fiscali e contributivi, oltre a punteggi premiali nella partecipazione ad appalti pubblici, all’adozione di policy adeguate a ridurre il divario di genere in tutte le aree maggiormente critiche per la crescita professionale delle donne, e che viene rilasciata da organismi di certificazione accreditati in conformità alla prassi UNI/PdR 125:2022.Il Codice segue l’approccio trasversale e strategico del Governo sul tema della natalità che, come certificato dall’ISTAT, anche nell’anno trascorso e quello in corso ha fatto toccare all’Italia un nuovo record negativo che non sembra arrestarsi, con effetti ormai percepibili sull’economia, sul mercato del lavoro e sul modello sociale.I comportamenti organizzativi individuati dal Codice per l’intervento da parte di imprese e organizzazioni, sono:il favore per la continuità di carriera delle madri,le iniziative di prevenzione e cura dei bisogni di salute,l’adattamento dei tempi e modi di lavoro. Inutile sottolineare che hanno adottato questo documento 111  grandi imprese che naturalmente ne vogliono trarre beneficio per la loro immagine. Ma quanto fino ad oggi( fine giugno2024) acqua all’occupazione femminile hanno portato queste cd iniziative? Non esiste una base dati esauriente, aspetto che impedisce una valutazione efficace degli effetti per esempio del Pnrr. E questo vuol dire sprecare una grande opportunità perché il Piano, se orientato bene, potrebbe avere conseguenze molto positive. La garanzia di un’occupazione stabile e di qualità come  strumento centrale per rimuovere il gap di genere. Per garantire alle donne l’accesso al mercato occupazionale è infatti cruciale liberare tempo dai lavori di cura, il cui carico è sulle loro spalle. Per questo bisogna migliorare la medicina di prossimità, le attività di formazione, le opportunità della transizione ecologica e digitale. L’insufficiente autonomia economica ha una grossa responsabilità negli episodi di violenza, sotto varie forme. Il Pnrr è un classico caso di gender data gap. È infatti difficile monitorare in assenza di dati, con flussi di informazioni estremamente lacunosi. Parliamo ogni giorno di come i dati costruiscono il nostro presente e il nostro futuro. Dovremo partire fin d’ora nel riconsiderare il modo in cui vengono raccolti,  Non è quindi solo una questione della quantità delle informazioni messe a disposizione, ma anche della loro qualità: Solo cambiando l’approccio alla conoscenza numerica dei fenomeni si possono fare previsioni accurate, dobbiamo continuare a misurare per agire, e per questo dobbiamo pretendere un’individuazione e raccolta di dati di genere. Se non ci sono dati non è perché qualcuno li produce e non li dà, ma perché il Pnrr non è stato concepito metodologicamente per far sì che queste priorità trasversali possano essere monitorate. Da noi lo sviluppo dello Stato sociale è avvenuto tramite l’espansione della spesa per trasferimenti e servizi pubblici, senza un parallelo rafforzamento delle capacità statuali indispensabili per programmare, attuare, monitorare e correggere le varie misure. Reddito di cittadinanza, riforma fiscale, revisione del sistema pensionistico e delle aliquote contributive: il governo è intervenuto (o si appresta a farlo) su alcuni delicati pilastri del cosiddetto «contratto sociale» che regola i rapporti fra cittadini e Stato. Toccare questi pilastri significa modificare il dare e l’avere, ossia l’equilibrio fra ciò che si ottiene sotto forma di prestazioni e ciò che si paga in tasse e contributi. Soprattutto per le categorie più deboli, anche piccoli cambiamenti rischiano di mettere a rischio la capacità di rispondere a vulnerabilità e bisogni. Inoltre, l’entità e il disegno specifico dei provvedimenti hanno importanti implicazioni di sistema, impattano sui livelli di occupazione e di diseguaglianza, sulla competitività delle imprese, persino sulla demografia. Per questo è importante che il governo operi entro una cornice programmatica ampia e coerente e decida sulla base di accurate valutazioni tecniche. Le riforme sinora adottate non sono state accompagnate da  dati e analisi d’impatto. Il RdC è stato abolito solo di nome, al suo posto ci ritroviamo con due diversi sussidi: l’ Assegno di Inclusione (Adi) e il Sostegno alla Formazione e al Lavoro (Sfl). A tutt’oggi mancano tasselli essenziali perché entrambe le misure possano funzionare, a cominciare dal sistema informativo per la gestione degli accessi, lo smistamento dei richiedenti, l’incontro fra bisogni e offerte di formazione. La comunicazione con i beneficiari è stata pessima, il percorso burocratico per l’accesso al Sfl si profila come una sorta di via crucis. Si ha inoltre l’impressione che nessuno si sia posto il problema del nesso fra riforma del RdC, salario minimo (o almeno le verifiche sul rispetto dei minimi contrattuali), agevolazioni contributive, riforma fiscale (pensiamo al vecchio problema degli incapienti).Le politiche pubbliche risentono della mancanza di quella infrastruttura tecnica a supporto del policy making presente negli altri Paesi europei. Da noi lo sviluppo dello Stato sociale è avvenuto tramite l’espansione della spesa per trasferimenti e servizi pubblici (il «sociale», appunto), senza un parallelo rafforzamento e articolazione delle capacità statuali indispensabili per programmare, attuare, monitorare, valutare e correggere le varie misure, in relazione ai loro effetti. Questo deficit è il principale responsabile degli squilibri interni che ancora caratterizzano lo Stato sociale italiano nonché del suo scollamento rispetto al proprio corrispettivo sul versante del prelievo, lo Stato fiscale. Senza capacità di governo, le politiche pubbliche non «imparano», ogni riforma riparte da zero. Nel settembre del 2022, la Commissione aveva invitato i governi «a effettuare sistematicamente valutazioni d’impatto distributivo» sia ex ante sia in seguito all’attuazione.  Un orizzonte temporale di quattro anni e mezzo consentirebbe di effettuare un investimento straordinario in capacità istituzionali e di trarne subito vantaggio in termini di qualità delle politiche pubbliche. Ecco queste considerazioni le posso fare oggi con franchezza e a volte in campagna elettorale filtrando i toni e anche i contenuti le ho avanzate lasciando però spesso i discorsi ( molto impegnativi ) privi di dovuti approfondimenti.La verità fa male.

 

 

 

 

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