Donne,occupazione e pensioni:situazionegrave.Come rimediare
Alessandra Servidori Donne ,occupazione e pensioni : situazione grave come rimediare
Secondo una recente indagine della Commissione Lavoro della Camera e i dati EUROSTAT Fonte: 2014 nel complesso dei 28 Paesi dell’Unione, il tasso di occupazione nella fascia di età tra 15 e 64 anni è, pari al 70,9 per cento per gli uomini e al 60,4 per cento per le donne, con un differenziale di genere di circa 10,5 punti percentuali. Tali dati trovano corrispondenza anche nei Paesi dell’area dell’euro, nei quali il tasso di occupazione maschile è del 69,7 per cento, che, per la componente femminile, scende invece al 59,5 per cento. Peraltro, i dati dei divari tendono ad ampliarsi nelle fasce di popolazione di età più elevata. Per quanto riguarda il nostro Paese, in particolare, il tasso di occupazione femminile è sensibilmente inferiore a quello maschile: a dicembre 2015, il tasso di occupazione per le donne di età compresa tra 15 e 64 anni era pari al 47,1 per cento, a fronte di un dato riferito agli uomini della medesima fascia di età, pari al 65,9 per cento, con una differenza quindi di quasi 19 punti percentuali. E il dato allarmante è che a fine 2016 e inizio 2017,le cose non cambiano Si tratta di un dato tristemente noto, che non potrà non riflettersi nel tempo anche sul differenziale di genere in materia previdenziale,tanto sotto il profilo del tasso di copertura del sistema pensionistico quanto sotto quello della misura dei trattamenti riconosciuti. Con riferimento all’ammontare delle retribuzioni, occorre inoltre considerare che sussiste un divario retributivo di genere a danno della componente femminile del mondo del lavoro: assumendo come riferimento la differenza tra il salario orario medio lordo di uomini e donne espresso come percentuale del salario orario maschile, il gap tra uomini e donne è in media pari, nei Paesi dell’Unione europea, a circa il 16 per cento. Nei Paesi dell’OCSE la situazione è sostanzialmente analoga, con una differenza nelle retribuzioni medie di poco inferiore, che si colloca attorno al 15,5 per cento, mentre in Italia il dato è sensibilmente inferiore alla media europea e dell’OCSE,in quanto, nel 2014, il differenziale di genere è stato pari al 6,5 per cento. Nel nostro Paese vi è una bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, che porta a concentrare l’occupazione nelle fasce con più elevata formazione e qualificazione. A parità di formazione e qualifica, infatti, il gap italiano è sostanzialmente in linea con la media europea. Va considerato che le attuali caratteristiche della partecipazione femminile al mercato del lavoro appaiono suscettibili di promuovere in futuro la creazione di differenze di genere in materia pensionistica, specialmente se si considera che le donne hanno una carriera lavorativa complessivamente più breve rispetto a quella degli uomini: la durata media della carriera di una donna è inferiore a venticinque anni,laddove quella dell’uomo è, in media, di circa trentanove. Allora per almeno rimediare sul piano della contribuzione pensionistica – come già suggerito nel seminario e nella relazione a firma della scrivente in data 2014 al Ministero del lavoro e nel libro Conciliazione tempi di vita e di lavoro Giuffrè 2017 ,occorre in primo luogo valorizzare, andando oltre quanto già previsto dall’articolo 1, comma 40, della legge n. 335 del 1995, tutti gli istituti capaci di ridurre gli effetti negativi della maggiore discontinuità delle carriere lavorative femminili. E’opportuno incrementare i benefici (accrediti figurativi, aumenti dell’importo pensionistico, facoltà di riscatto) in relazione a specifici eventi (quali la nascita e la malattia dei figli, l’assistenza a disabili e ad anziani non autosufficienti) soprattutto al fine di estenderli anche ai periodi al di fuori del rapporto di lavoro, rispetto ai quali la legislazione italiana risulta comparativamente più carente in confronto a quelle degli altri Paesi europei. Inoltre ai fini del calcolo contributivo, non già dell’intero ciclo di vita lavorativa, ma solo degli anni meglio remunerati, escludendo quelli (a salario zero o a basso salario) dedicati (in tutto o in parte) ai lavori di cura (gli anni dedicati alla cura di figli che è possibile escludere ammontano a sette in Canada, dodici in Inghilterra e Lussemburgo e ben sedici in Svizzera), che vengono riconosciuti come periodo lavorato con un calcolo contributivo pari alla media dei periodi lavorati effettivamente. Oppure si potrebbero prevedere maggiorazioni dell’anzianità contributiva per le donne e gli uomini che si occupano dei figli (come accade soprattutto in Francia); o, ancora, riconoscere il lavoro di cura e, contemporaneamente, incentivare le donne a lavorare, riconoscendo ad esse specifici benefici se decidono di non interrompere l’attività lavorativa (come avviene in Germania, ove vige un sistema che riconosce 0,33 punti in più per ogni anno, fino ai tre anni di età del figlio, se le donne non interrompono l’attività lavorativa). Particolare attenzione dovrebbe essere, in questo contesto, dedicata alle misure volte a rispondere all’esigenza di cura dei familiari non autosufficienti,dal momento che l’incremento della vita media rende sempre più frequente la presenza nel nucleo familiare di soggetti bisognosi di cure e assistenza costanti.
Alessandra Servidori