Lettera aperta a Daniela Carà
Cara Daniela
leggo e apprezzo la tua riflessione sulla Pubblica Amministrazione che hai ben chiarito lucidamente su Noi donne.
Si cominci con il ripristinare lo stile, che nella vita pubblica, come in quella privata, è anche sostanza. Lo dico questo perché ho più che mai la certezza che al nostro Paese e alle italiane e agli italiani vadano rappresentate le situazioni così come stanno, almeno proprio per capire fino in fondo il senso del tuo ragionamento che ripeto, condivido, essendo la mia vita professionale ricca di esperienza, appunto, svolta più o meno felicemente nella grande mamma che è la Pubblica Amministrazione. Oggi Work l’Economic Forum, ieri l’Ocse ci dicono a chiare lettere che siamo l’unico Paese ancora in recessione. I dati pubblicati sia dall’uno che dall’altro autorevole Osservatorio internazionale prevedono una chiusura dell’anno a -1,8%. Gli ottimisti si consoleranno considerando che nel terzo trimestre perdevamo lo 0,4 e nel quarto perdiamo lo 0,3. La discesa rallenta. Si tratta pur sempre di discesa, però, e la Francia ha fatto, negli stessi trimestri, +1,4 e +1,6. Né ci sarà da festeggiare granché quando, dopo troppo tempo, rivedremo il segno positivo, perché nella nostra situazione non bastano gli zero virgola, ci vuole molto di più. E devono essere i talenti femminili che sollevano la questione economica poiché da questo angolo noi vogliamo uscire.
Ricordiamoci bene che dal 1995 aoggi, con la sola eccezione del 2009, noi siamo l’unico Paese dell’Unione monetaria europea costantemente in avanzo primario. Dal 2008 al 2013 il nostro debito pubblico è cresciuto più di quello svedese, ma meno di quello degli altri. Siamo gli unici ad avere pagato gli interessi sul debito pubblico senza averli coperti tutti con nuovo debito, ma usando per circa la metà gli avanzi primari. Ciò per dire che sul minore sviluppo pesa anche la minore spesa pubblica. Ma contemporaneamente abbiamo fatto crescere in modo irresponsabile la pressione fiscale e nonostante questo il debito pubblico continua a lievitare (sia in percentuale sul pil che in cifra assoluta). La terapia fin qui praticata non funziona, perché siamo sì forse i più rigorosi nell’amministrazione del bilancio presente, ma a spese dei cittadini, della crescita, aumentando la recessione e senza intaccare il debito. Questa è la vera sfida che attende l’Italia. Dal 2016 dovremo iniziare ad abbattere il debito di un ventesimo l’anno, secondo una formula molto complicata ideata dalla Commissione Europea. Avremo nel medio periodo la necessità di abbattere uno o due punti l’anno, che in verità non è una cifra impossibile. Avremo invece uno start up molto forte attorno a cinque punti percentuali: ecco la vera preoccupazione.
Dovremo sin da adesso adottare misure di carattere straordinario, in grado di facilitare quel traguardo. L’importante, però, è cominciare subito ma su questo vedo totale ristagno e indifferenza da parte delle forze politiche. Fino ad oggi si è ragionato sempre a margine, individuando quelle poche risorse che ci davano fiato, anche attraverso operazioni di maquillage. Abbiamo perso di vista i fondamentali della situazione italiana, che invece dovremmo affrontare e rovesciare tenendo conto delle raccomandazioni europee che rappresentano un valido strumento. Dei sei punti che ci ha veicolato la Commissione europea, cinque riguardano uno choc sull’economia reale: flessibilità del mercato del lavoro, riduzione del perimetro della Pubblica Amministrazione, aumento della produttività, liberalizzazioni e attenzione al debito pubblico. Mentreil primo punto si riferiva al rispetto dei parametri di Maastricht, che rappresenta un elemento di contraddizione. Perché tali riforme di natura strutturale necessitano di risorse per essere gestite. Tanto è vero che nel 2003, quando Schroeder fece lo choc dell’economia, determinando quelle riforme di struttura che consentono oggi a Berlino di avere un surplus di pagamenti da sette punti di Pil, – eccezionale ma anche sconvolgente per gli equilibri finanziari europei – la Germania andò fuori dal patto. Per cui se non fossimo usciti dalla procedura, anzi avessimo ottenuto una proroga e nel frattempo avessimo condotto in porto le riforme, la nostra situazione si sarebbe comunque attenuata.
Dunque una nuova classe dirigente responsabile deve mettere mano con determinazione subito alla spesa pubblica,perché èilvero rubinetto spalato e perché siamo assolutamente consapevoli che se le cose non vanno peggio lo dobbiamo alle esportazioni, che prese in modo isolato, ci restituiscono l’immagine di un’Italia in crescita e capace di competere nel mercati globali. Abbiamo imprese che funzionano e una manifattura ancora esistente, al contrario degli Stati Uniti.
Da qui dovremmo ripartire.
Dobbiamo dunque proporre subito di varare le riforme che fluidifichino ilmercato (dal lato del lavoro pubblico e privato, dell’impresa e del credito), pagando tutti i debiti che la pubblica amministrazione ha con i fornitori (usando la garanzia bancaria della Cassa depositi e prestiti) e abbattendo ildebito mediante dismissioni di patrimonio pubblico. Queste sono le premesse per far scendere la pressione fiscale, avendo in mente non gli umori degli elettori, ma i bisogni del sistema produttivo, fatto d’imprese e lavoratori e lavoratrici. Colpire le rendite e i parassitismi alimentati dalla spesa pubblica improduttiva, che è rimasta intatta e spropositatamente ricca. Premiare chi rischia, compresi i lavoratori e le lavoratrici privi di sicurezza, abbassando la pressione contributiva. Smantellare la burocrazia che insegue l’allucinazione dei controlli e pratica quella dei blocchi.
Alessandra Servidori
4 settembre 2013